Ipocondria ai tempi del COVID-19

L’”ipocondriaco” è una personaggio di cui ormai abbiamo fatto conoscenza (stereotipizzata e a volte ridicolizzata) un po’ tutti. Per queste persone, un mal di testa diventa rapidamente un tumore, e un battito irregolare o un dolore al braccio destro si trasformano senza indugi in pronostico di infarto.


Il “disturbo d’ansia da malattia” (DSM-5, APA, 2013) o ipocondria, è la tendenza a sovrastimare o interpretare i segnali provenienti dal corpo come possibili malattie, anche gravi. Questa particolare attenzione al corpo è associata ad un percepirlo quasi come estraneo. “Mi sono accorto/a che non lo controllo più”, “mi sta facendo impazzire”, chi è ipocondriaco ne parla un po’ come di un figlio scorbutico, o di un animale disobbediente, che non risponde più ai comandi.

Già nei discorsi di queste persone, il corpo ed i suoi segnali appaiono come qualcosa di scisso dalla mente, e questo ragionamento è un po’ figlio della separazione che anche la società attribuisce a queste due componenti del vivere umano (non per niente, psicologo e medico sono due professioni distinte, nella nostra società).
Queste persone vanno alla ricerca del minimo segnale di disfunzione, e prestano grande attenzione a tutto ciò che proviene da quell’estraneo, a volte nemico, che è il corpo. E’ proprio quest’attenzione particolare a determinati segnali che rinforza il disturbo, poiché, se cerchiamo qualcosa spasmodicamente, quasi sicuramente lo troveremo. Ed è così che la preoccupazione diventa azione: si va dal medico di base, si va all’ospedale, si va in farmacia. Alla ricerca di una soluzione? Non proprio.
L’”ipocondriaco” va alla ricerca di rassicurazione: in un ospedale, dopo tac ed esami approfonditi, una persona competente potrà proferire le tanto agognate parole: “Lei non ha nulla”.
Già, ma il problema è: quanto dura questa rassicurazione?
Ai pazienti che le cercano da me, a volte pongo questo quesito: “Se io la rassicurassi, quanto crede che durerebbe quel sollievo? Fino alla fine della seduta? Ce la farebbe a scendere tutte le scale prima di preoccuparsi di nuovo? Magari fino alla macchina?”. Quando arriva, in altre parole, il prossimo segnale di malattia per cui preoccuparsi?

Ipocondria e COVID-19: il mondo ci dà ragione

Il periodo che stiamo vivendo, in cui il sistema sanitario è sovraccarico e un pericoloso virus minaccia la popolazione mondiale, rappresenta per l’ipocondria un’occasione di assurdità che, col giusto distacco, potrebbe apparire tragicomica. Da un lato, l’ipocondriaco (così come alcune persone affette da disturbo ossessivo-compulsivo, legate da sempre ai rituali della pulizia), potrebbe trovarsi nella situazione unica di poter dire “ve l’avevo detto!”. L’attribuzione al corpo di tutte le nostre preoccupazioni psicologiche, trova fondamento e possiamo rilassarci: non siamo noi, è il corpo; non siamo noi, è il virus. Ci si potrebbe quasi rilassare, pensando che, tanto, non è rimasto quasi nulla da fare, in nostro potere.
Dall’altro lato, avere finalmente ragione non significa stare bene, e la preoccupazione potrebbe schizzare alle stelle, “finalmente” giustificata dal mondo intero, altrettanto preoccupato di ammalarsi. Il terrore di non sapere cosa fare per proteggersi affligge molte persone, ma come la potrebbe prendere qualcuno che, già di default, presta tanta attenzione ai segnali del corpo? Non ci si può nemmeno recare più in ospedale, o dal medico, con tanta facilità, a cercare l’agognata rassicurazione.

Che fare, quindi?
L’occasione offerta da questo virus è la possibilità di bloccare quella ricerca (“ce l’ho o non ce l’ho?”) e di puntare su qualcos’altro. Ammettiamo di ammalarci, ammettiamo la possibilità che questo accada. Quale potrebbe essere, nella nostra mente, l’esito più drammatico, più grave, più insopportabile?
Molti, arrivati qui, potrebbero accorgersi che le fantasie più sfrenate legate alla malattia hanno poco a che fare con la morte, e molto a che fare con altri temi: solitudine, responsabilità per qualcuno da curare, debolezza, vecchiaia, persino immagine pubblica ed estetica.

Non a caso, la terapia cognitivo comportamentale, la forma più efficace per questo disturbo (Barsky & Ahern, 2004; Bouman & Visser, 1998; Taylor, Asmundson & Coons, 2005; Olde Hartman et al., 2009), si occupa di identificare i particolari frangenti in cui questo problema si presenta, e di fotografare i pensieri catastrofici per poterli meglio identificare, in maniera analitica e più critica. Cosa si nasconde dietro a certi pensieri?
Riappropriarsi della mente è un buon modo per percepire il corpo come meno problematico.

Bibliografia:

American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Washington, DC: Author.

Barsky, A. J., & Ahern, D. K. (2004). Cognitive behavior therapy for hypochondriasis: a randomized controlled trial. Jama, 291(12), 1464-1470.

Bouman, T. K., & Visser, S. (1998). Cognitive and behavioural treatment of hypochondriasis. Psychotherapy and Psychosomatics, 67(4-5), 214-221.

Taylor, S., Asmundson, G. J., & Coons, M. J. (2005). Current directions in the treatment of hypochondriasis. Journal of Cognitive Psychotherapy, 19(3), 285-304.